di Raffaele Salinari
Medico, già presidente di Terres des Hommes
Il recente rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulle condizioni generali di salute dei soggetti migranti, reso noto il 21 gennaio 2019 (si veda il link), ha sollevato finalmente il velo del pregiudizio e della vulgata che vuole la maggioranza di questi soggetti portatori di malattie trasmissibili, e dunque un potenziale pericolo per i Paesi riceventi. Il rapporto ha anche chiarito i vantaggi di una accoglienza organizzata e pianificata, tale cioè da rispondere alle indubbie richieste di cura che vengono da questi soggetti come un incentivo a adeguare i sistemi sanitari dei Paesi sviluppati, sempre più esposti alle dinamiche sanitarie legate anche alla mobilità interna dei pazienti.
E dunque, sebbene venga riconosciuto che i fenomeni migratori possono agire come fattori determinanti negativi per la salute delle persone costrette a spostarsi – e che i migranti spesso affrontano questi “viaggi della speranza” anche perché sottoposti nei loro Paesi di origine a carenze o disuguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari – è altresì chiaro come tutto questo ponga il più vasto problema di come realizzare una vera e propria Copertura Sanitaria Universale.
I fenomeni migratori, infatti, sono una componente oramai strutturale del modello di sviluppo mondiale attuale, strettamente correlati alle diseguaglianze economiche, alle modificazioni ambientali, alla crescente esclusione di masse sempre più grandi dai Diritti di base come, appunto, la salute o l’istruzione. Già da tempo era apparso chiaro che – dopo la crisi finanziaria del 2008 che ha visto, tra le altre cose, la crisi apparentemente irreversibile dei sistemi di welfare a livello mondiale, e soprattutto europeo – era necessario elaborare una risposta anche rispetto alle
implicazioni che un sistema altamente finanziarizzato e fuori controllo avrebbe avuto su un diritto basilare come quello alla salute anche nei Paesi sviluppati. Per questo, secondo lo studio dell’OMS, affrontare in modo strutturale e pragmatico le questioni sanitarie che riguardano i migranti, può rappresentare una vera opportunità per ripensare i modelli sanitari su scala globale.
I numeri del fenomeno, infatti, parlano chiaro: si stimano in 277 milioni i migranti internazionali, dei quali 25,4 milioni rifugiati e 164 lavoratori stranieri già operanti nei Paesi di accoglienza. Ma, se la situazione globale non cambia, nei prossimi dieci anni molti altri milioni cercheranno protezione internazionale, o semplicemente un avvenire migliore o la sicurezza della loro stessa vita, in un altro Paese. Se poi si aggiungono a tutti questi anche i cosiddetti migranti interni, quelli cioè che rimangono all’interno dei confini del proprio Paese, arriviamo ad oltre 1 miliardo di persone; ciò significa che una persona su sette, rispetto a tutta la popolazione mondiale, ha lasciato la sua terra di origine e si sta muovendo.
Ecco perché le comunità in molti Paesi europei, Italia inclusa, vedono crescere la percentuale dei loro residenti nati all’estero, regolari o irregolari. Ma, nonostante questo, o forse proprio per strumentalizzare il fenomeno per fini autoritari ed escludenti, i sistemi sanitari vigenti appaiono desueti, come fossero modellati su popolazioni statiche e omogenee, e dunque tendenti a trattare la mobilità, anche quella oramai fisiologica “indigena” ed ancor più le diversità culturali – che sempre più sono la cifra delle società complesse – come un qualcosa di eccezionale, ovvero per utilizzarla come fonte di uno «stato di eccezione permanente», secondo il noto concetto di Carl Schmitt.
Come ci ricorda in suo articolo su Lancet del dicembre 2018 Davide T. Mosca, già Direttore della sezione sanitaria dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (IOM), una dozzina di anni fa, ancora quando la migrazione era percepita con una sensibilità meno da «ordine pubblico internazionale», gli Stati membri delle Nazioni Unite si riunirono a New York per il primo Dialogo ad alto livello su migrazione e sviluppo (2006). L’evento vide l’impegno degli Stati verso un dialogo multilaterale sulla migrazione e la volontà di identificare insieme modi e mezzi appropriati per massimizzare i benefici che ne potevano derivare, in termini di nuove risorse per i Paesi soggetti ad invecchiamento, redistribuzione delle ricchezze, cooperazione internazionale allo sviluppo etc., e minimizzare i suoi impatti negativi. Su questa ondata, la 61 a Assemblea Mondiale della Sanità approvò nel 2008 una Risoluzione sulla salute dei migranti (WHA 61,17) che impegnava gli Stati membri a adottare politiche e attuare programmi per garantire, in un’era di mobilità umana globalizzata, il diritto alla salute dei migranti, indipendentemente dalla razza, dal genere, dall’età o dal loro status legale. Da allora diversi Paesi e entità sovranazionali, come ONG ed agenzie ONU, si sono impegnati nello sviluppo di politiche sanitarie sensibili ai migranti e nella creazione di partenariati a livello multisettoriale per identificare e affrontare le condizioni di vulnerabilità ed i problemi di salute lungo le rotte migratorie che, via via, assumevano dimensioni sempre più interconnesse alle diseguaglianze crescenti a livello globale.
«La salute delle persone che migrano riflette le circostanze della migrazione» afferma ancora l’articolista di Lancet, stabilendo così un chiaro nesso tra condizione sanitaria e cause migratorie.
Questo significa che le questioni potevano essere e dovevano essere affrontate già allora, dato che da tempo esiste, almeno sulla carta, a livello internazionale, la consapevolezza dell’entità che le migrazioni e le loro implicazioni sanitarie, vanno assumendo, Ma i progressi sono lenti e molto ostacolati soprattutto a livello di politiche nazionali, e questo perché persistono, in maniera miope e colpevole, differenze nei modi in cui si valutano, spesso per strumentalizzarli, i fenomeni migratori, non nel loro complesso, cioè come un fattore strutturale prodotto dal disviluppo, ma solo rispetto alle implicazioni che su un dato territorio possono avere l’afflusso di persone
straniere.
La mancanza di politiche internazionali efficaci per la presa in carico delle radici delle dinamiche migratorie, l’assenza ai livelli nazionali ed europei di adeguate riforme dei sistemi sanitari universali, l’opposizione crescente dei “sovranismi” alle politiche e pratiche per l’accoglienza, hanno così progressivamente portato alla situazione odierna in cui le restrizioni discriminatorie che riguardano i migranti e, più in generale, l’universalità dei Diritti umani, si saldano al rifiuto ideologico verso la necessità di pensare ad un piano globale per la ridistribuzione delle risorse, a
nuove regole per i sistemi di tassazione delle multinazionali, a standard condivisi e cogenti di protezione ambientale, a mezzi efficaci per la lotta alla corruzione e controllo della politica sull’economia. In breve, una occasione perduta che le forze progressiste – che guardano avanti, al progresso – dovrebbero invece gestire in maniera radicalmente diversa.