Domenica 28 aprile si sono tenute le elezioni parlamentari in Spagna: le tredicesime dal ritorno alla democrazia nel 1977, le terze nell’arco di quattro anni e le seconde tenute in anticipo rispetto alla scadenza naturale della legislatura. Il voto del 2019 è avvenuto all’interno di uno scenario politico particolarmente complesso, in cui almeno tre “questioni” si sono intrecciate nell’agenda politica degli spagnoli. Innanzitutto, la “questione catalana” che vede ancora aspramente divisi i sostenitori dell’indipendenza della Catalogna dai cosiddetti “costituzionalisti” che, invece, difendono le prerogative dello Stato centrale. In secondo luogo, la “questione governativa” e, in particolar modo, gli equilibri politici tra i partiti che, fino allo scorso febbraio, hanno sostenuto l’esecutivo guidato dal leader del partito socialista (Psoe), Pedro Sánchez e che, con rapporti di forza diversi, potrebbero tornare nuovamente al governo nelle prossime settimane. Infine, la “questione della destra estrema”, rappresentata oggi in Spagna dal partito Vox, una formazione politica sovranista-populista, anti-immigrazione ed euroscettica guidata da un ex dirigente del Partito popolare (Pp), Santiago Abascal. Con l’unica eccezione del Portogallo, la Spagna era infatti l’unico paese europeo che, nonostante la crisi economica e quella migratoria, non aveva visto crescere o entrare in parlamento un partito di estrema destra. Con il voto di domenica, questo trend si è interrotto e oggi il partito di Abascal può fare il suo ingresso nell’arena parlamentare.
Oltre a queste tre questioni che hanno caratterizzato la campagna elettorale, si aggiungeva anche l’ombra delle prossime elezioni europee. Sebbene le tematiche collegate direttamente all’Unione europea siano state marginali nel corso dell’intera campagna elettorale, le scelte e i comportamenti dei partiti spagnoli sono state e saranno inevitabilmente condizionate dal contesto sovranazionale, soprattutto per quanto riguarda le possibili alleanze post-elettorali.