Istituto Cattaneo

Contro la caverna sondocratica. Perché è giusto abbandonare i sondaggi – di Marco Valbruzzi

 

Avrei dovuto ascoltare il mio piccolo “campione” di studenti americani venuti in Italia a studiare il Bel Paese e a carpire i segreti delle sua grande, ma decadente, bellezza. Tutti rigorosamente bianchi, prevalentemente dell’America costiera (west and east), di famiglia medio-ricca, espressione di quel “mitico” ceto medio che cerca di resistere allo scivolamento progressivo verso un declassamento imposto dall’esterno, da eventi e fenomeni sui quali non ha alcun controllo e influenza. Tra di loro, solo una timida minoranza era disposta a votare per la dynasty clintoniana, espressione plastica di un establishment immutabile e, ai loro giovani occhi, indifendibile.

“Abbiamo pensato troppo agli altri, al mondo al di fuori degli Stati Uniti” – mi raccontava una giovane studentessa californiana, trumpiana di ferro – “ora è arrivato il tempo di rimettere l’America al primo posto: America first”. Magari non sarà così semplice e, probabilmente, rinchiudersi nel proprio recinto federal-nazionale mentre fuori infuria la tempesta perfetta (un mix di perdita di identità, smarrimento cultural-valoriale, polarizzazione delle diseguaglianze e declassamento per quella piccola borghesia incapace di stare al passo del mercato globale) è soltanto un’illusione, un American dream che rischia di trasformarsi nell’American nightmare. Ma questo è il vero significato del voto americano dell’8 novembre e dell’impensabile elezione alla presidenza di un maverick come Donald Trump.

Potevamo prevedere tutto ciò? Potevamo intercettare in anticipo questa trasformazione nella società americana che, peraltro, sotto molti aspetti, assomiglia ai mutamenti già intervenuti (e noti) tra i cittadini della Vecchia, e anch’essa vacillante, Europa? Non so se tutto questo era possibile, ma so di certo che neppure ci abbiamo provato. Nessuno studioso, compresi quelli americani, si è interrogato sulle trasformazioni profonde e sui cambiamenti negli stili di vita, nello status, nelle paure che hanno coinvolto la complessa e variegata società americana. E non lo abbiamo fatto – né noi (europei) né loro (americani) – perché ci siamo affidati totalmente, ciecamente, allo strumento più banale, meno affidabile e più volatile tra quelli che sono in circolazione per studiare quello che davvero ribolle nella società, nella cosiddetta “pancia” del paese. Ci basta l’arma del sondaggio – ecco svelato il mio bersaglio – per fingere di aver capito gli orientamenti e gli umori dei cittadini e per azzardare facili previsioni sul futuro.

Sarebbe troppo facile criticare i sondaggisti e gli esperti di analisi demoscopiche in generale dopo un flop come quello di martedì scorso. Non mi va di sparare sulla Croce Rossa propria ora che, come tanti comandanti Schettino, molti sondaggisti di punta cercano di scappare dalla nave dei sondaggi che affonda. Mi fanno anche un po’ tristezza i tentativi posticci di coloro che provano a difendere l’indifendibile, tentando di nascondere i loro fallimenti dietro la coperta cortissima dei “margini di errore statistico”, facendoci capire che tutto – e il contrario di tutto – era previsto. Lo strumento è ormai chiaramente fallace, totalmente inutile e profondamente deleterio. È chiaro che da domani ripartiranno roundtable, workshop, conferenze e seminari per capire cosa è andato storto, perché il “campionamento probabilistico” non ha funzionato, perché la “stratificazione” socio-demografica era poco calibrata oppure perché il campione “rappresentativo” era, ebbene sì, poco rappresentativo. Affari loro, cioè affare di chi ancora crede che sia possibile capire/prevedere il comportamento di voto e le sue concrete motivazioni grazie ad un sondaggio preparato velocemente allo scopo. E che poi, come la classica ciliegina sulla torta, cerca di spiegarci ex post, sulla base di dati “leggeri” come una piuma, che cosa è concretamente successo nelle elezioni. Mi dispiace, ma non ci credo più.

Il danno vero di questa sondocrazia imperante è che tutti noi – analisti, scienziati sociali, commentatori – abbiamo da tempo ormai smesso di pensare e di indagare la società nel profondo, con tutti gli strumenti che questa “profondità” necessariamente richiede. Ci siamo impigriti intellettualmente perché c’illudevamo che la realtà ci potesse essere rivelata senza fatica e a buon prezzo dai sondaggisti e dalle loro analisi usa-e-getta. Tutto ciò che non è “sondabile” lo abbiamo nascosto sotto il tappeto, accontentandoci di compulsare dati prodotti da analisi demoscopiche che ad ogni tornata elettorale mostrano sempre di più tutti i loro limiti. Ma, nel mettere in luce i loro problemi, illuminano anche i ritardi, le incapacità, le cecità di chi dovrebbe analizzare la società e la politica e, invece, si limita alla superficie, alla punta di un iceberg che si sta trasformando enormemente sotto i nostri occhi. Lo sappiamo che i politici si siano adeguati a questa supremazia del sondaggio, come ci aveva già allertato Giovanni Sartori diversi anni fa. Non è una novità. Nel loro inseguimento perenne del sondaggio del momento e dell’umore istantaneo del cittadino medio, i politici hanno smesso di pensare, non in grande, ma “in lungo”, cioè nel periodo che va un poco al di là della prossima scadenza elettorale o della rilevazione statistica settimanale. Se siamo finiti nel vortice di democrazie irresponsabili, che non sanno più prendersi cura del futuro, una parte di colpa sta anche in questo atteggiamento manicheo con cui la classe politica si rivolge all’oracolo della demoscopia.

Però, la pigrizia dei politici non giustifica quella degli studiosi, che hanno il compito e, forse, anche il dovere, di fare pensieri “lunghi”, di non accontentarsi dei sentiment del momento, ma di analizzare con meticolosità, anche prendendosi il giusto tempo, quello che sta accadendo realmente nella società. Totalmente succubi dei sondaggi, abbiamo subito la dittatura del “qui ed ora”, dimenticandoci che esiste una storia che condiziona l’oggi e che c’è un mondo al di fuori di “qui” che influenza la situazione attuale. Se continueremo ad aspettare che siano i sondaggi(sti) a raccontarci come stanno o andranno le cose, non solo avremo sprecato del tempo invano, ma ancora peggio saremo venuti meno al nostro compito/dovere di spiegare come e perché sta cambiando la società.

A questo punto, è arrivato il momento di fare outing: confesso che è capitato anche a me, in passato, di seguire e organizzare analisi dei comportamenti elettorali attraverso lo strumento del sondaggio. Con risultati, peraltro, in termini sia esplicativi che predittivi, tutt’altro che disprezzabili. Ma oggi non ci credo più; anzi, oggi non mi accontento più. Se vogliamo davvero comprendere quel che succede nella società, dobbiamo ribaltare il nostro modo di fare ricerca, anticipando e non aspettando golosamente i risultati dei sondaggi, più o meno quotidiani. Insomma, fidatevi: usciamo dalla “caverna sondocratica” e torniamo a osservare la realtà coi nostri occhi e coi nostri strumenti. Magari scopriremo che non è poi così insondabile come ci hanno fin qui raccontato.

Marco Valbruzzi